Il reato non era inesistente. Una fattispecie di reato applicabile alla condotta specifica ai tempi della sua commissione (1995) c'era eccome: frode in competizioni sportive. Il P.M. Raffaele Guariniello istruì un processo che poi per competenza territoriale si fece passare ad altra Procura. Bene. In primo grado un giudice sentenziò favorevolmente rispetto al piano accusatorio del P.M. torinese, ravvisando l'integrazione della fattispecie della frode nelle condotte. Queste, stando alle prove raccolte, consistevano in pratiche di doping autogeno ed eterogeno: quindi sia assunzione che somministrazione di sostanze dopanti, sia sottoposizione a pratiche mediche dopanti. Il giudice di primo grado, andando addirittura contro la richiesta di assoluzione del P.M. (al quale era poi passata l'indagine), fece una attenta analisi delle intenzioni del legislatore relativamente al reato di frode in competizioni sportive. Secondo il giudice, infatti, la norma non sarebbe stata solamente volta a "tutelare degli interessi economici" (si ricordi che la legge in questione venne introdotta in seguito agli scandali del c.d. calcio scommesse), ma anche a "tutelare la correttezza delle competizioni sportive". Quindi secondo il giudice, non solo i soggetti esterni alla competizione sportiva (medici, massaggiatori) alteravano l'esito naturale della competizione stessa, ma anche i soggetti interni, ovvero gli atleti (in questo caso Pantani).Alcuni furono poco corretti. Essere indagati imputati e processati per un reato inesistente alla data di contestazione e' imperdonabile.
Solo in secondo grado i giudici ravvisarono una sorta di vuoto normativo sconfessando le ipotesi accusatorie precedenti relative alle pratiche di autodoping, che seppur sussistenti e provate, non potevano essere ricondotte alla ipotesi di frode sportiva. Questo perché si scelse di non voler far rientrare le condotte di autodoping nell'alveo delle condotte integrabili il reato di frode in competizioni sportive.
Va da se che siamo, quindi, dinnanzi a interpretazioni differenti delle leggi allora in vigore, dalle quali si giunse comunque a delle verità inoppugnabili: le condotte vennero provate. L'atleta imputato (Pantani) assunse sostanze dopanti e si sottopose a pratiche mediche illecite con lo scopo di alterare le prestazioni sportive.
Riassumendo, ciò che salvò processualmente Pantani fu il fatto che la legge antidoping (376/2000) era successiva al 1995 (anno relativo alle condotte oggetto del procedimento) e quindi inapplicabile retroattivamente.
L'altra legge applicabile alle fattispecie di doping (frode in competizione sportive, l. 401/1989), venne ritenuta in appello non applicabile alle condotte di autodoping. Pantani quindi non venne assolto perché i fatti non sussistevano, ma perché la legge applicabile a quella fattispecie specifica era successiva al momento in cui le condotte furono realizzate.