La Campagnolo delocalizza....

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L’Italia non attrae le imprese, non attrae investimenti, non attrae “cervelli”. L’Italia sta rischiando moltissimo e rischierà sempre di più se non si farà presto qualcosa. L’economia nazionale, per uscire da questa terribile crisi, ha bisogno di lavoro, dunque di imprese, sia italiane che straniere, disposte ad aprire e mantenere stabilimenti produttivi in Italia, ma non solo: abbiamo anche bisogno di nuovi imprenditori con idee tecnologiche ed innovative disposti ad avviare delle imprese startup nel nostro paese. Questo processo di DEINDUSTRIALIZZAZIONE ci sta rendendo sempre più poveri, disarmati dinanzi alla crisi economica ed incapaci di dare alle giovani genererazioni le prospettive di lavoro e di vita che fiduciosamente si attendono.
Riuscirà l’Italia a vincere la sfida con sè stessa e a diventare realmente un paese competitivo ed allettante per chi vuol fare impresa? Come avrete modo di leggere in questo articolo, all’estero stendono tappeti rossi e baciano i piedi alle imprese, sia nuove che preesistenti. Da noi, invece, le imprese vengono malmenate, torturate e trattate alla stregua di banditi dall’ordinamento fiscale, per essere infine prese in giro da una burocrazia assurda che invece di collaborare mette soltanto i bastoni tra le ruote. Queste non sono balle: è la pura verità. Per questo, gli imprenditori italiani che decidono di andare all’estero non sono da considerare dei traditori, in quanto è l’unico modo che hanno per poter sopravvivere e continuare a lavorare e dare lavoro. Qui il solo ed unico traditore è lo Stato nei confronti di noi cittadini: la burocrazia è eccessiva e le tasse sono troppo alte. E’ banale no? Voi dove vi recate preferenzialmente a fare la grande spesa, al supermercato oppure nel piccolo negozio dove i prezzi son più alti? La stessa cosa vale le imprese: a rigor di logica, è giusto che si localizzino dove le tasse e le agevolazioni fiscali sono loro più favorevoli!
N.B. Mentre l’Italia del lavoro e dei lavoratori arranca, lo Stato spende ben il 60% del PIL legale dell’Italia e più del 50% di tale spesa NON E’ destinata al welfare ed ai servizi ai cittadini!!! Questa è una vera zavorra, una voragine che sta fagocitando le nostre imprese, chiedendo loro sacrifici spesso impossibili per poter fornire allo Stato le ingentissime risorse economiche di cui necessita per sostenere tutta la malgestione che si porta dentro, con i suoi arroganti sprechi ed i suoi voluttuosi lussi. Questo spiega, in gran parte, perchè molte imprese stanno fallendo e perchè molte altre, se sono ancora in tempo, si stanno trasferendo al di là dei nostri confini…
L.D.
http://www.radiohope.it/economia/22...azione-e-la-crisi-delle-imprese-italiane.html
La delocalizzazione e la crisi delle imprese italiane
di Phil, 22/11/2011
Delocalizzare un’azienda significa spostare fisicamente la produzione di beni e servizi in altri paesi, in genere in via di sviluppo. Il bene o servizio non viene venduto direttamente sul mercato dove viene prodotto, ma viene prima acquistato dall’impresa che opera nel paese di origine per poi essere rivenduto con il proprio marchio. Il fenomeno della delocalizzazione sta sempre più prendendo piede in Europa. A dire il vero, fino a pochi anni fa erano gli Stati Uniti a ricorrere maggiormente a questa pratica delocalizzando in Messico le produzioni che risultavano più convenienti, mentre Italia, Francia e Germania inizialmente preferirono rivolgersi ai paesi dell’Europa Orientale (come la Romania o paesi dell’ex URSS).
Ma perché gli imprenditori delocalizzano le aziende? Quali benefici porta questa soluzione, e soprattutto a chi? Il motivo principale per cui un imprenditore decide di delocalizzare la sua azienda è quello dell’abbattimento dei costi di produzione. Oltre a disporre di manodopera a basso costo, alcuni paesi adottano dei regimi fiscali sulle imprese molto più convenienti rispetto a quelli italiani. Altri importanti motivi posso essere la presenza di materie prime vicine al luogo di produzione, di leggi meno restrittive sulla salvaguardia dell’ambiente e poter disporre di energia a costo contenuto.
Dobbiamo considerare però gli effetti negativi che si creano nel paese che perde delle capacità produttive: l’impoverimento dell’economia nazionale con conseguente perdita di posti di lavoro e valore aggiunto, il rischio della perdita di controllo della qualità dei beni prodotti con conseguente perdita d’immagine per l’azienda, il rischio del fattore paese, l’aumento dei costi logistici.
Gli effetti positivi della delocalizzazione sono percepibili nel contenimento dei prezzi di vendita dei prodotti che negli ultimi anni sono cresciuti in modo sensibile.
In conclusione la delocalizzazione può essere un modo per rafforzare le imprese italiane, rendendole più competitive nel mercato internazionale, ma può danneggiare l’economia del paese d’origine. La possibile soluzione di questo problema può venire dallo sviluppo di beni e servizi che vengono creati da mano d’opera altamente qualificata non disponibile nei paesi in via di sviluppo. Il fatto di abbassare il costo del lavoro e aumentare le tasse sui consumi, potrebbe essere un’altra soluzione?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/25/numeri-e-casi-di-un-esodo-per-ora-inarrestabile/193678/
Delocalizzazione, la mappa delle aziende emigrate oltreconfine
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 25 febbraio 2012
Da Fiat a Benetton, passando per Telecom e Ducati. Ecco una mappa delle attività spostate all’estero da alcuni grandi gruppi italiani.
FIAT: stabilimenti aperti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina. Circa 20. 000 posti di lavoro persi, dai 49. 350 occupati nel 2000 si arriva ai 31. 200 del 2009 (fonte: L’Espresso).
DAINESE: due stabilimenti in Tunisia, circa 500 addetti; produzione quasi del tutto cessata in Italia, tranne qualche centinaio di capi.
GEOX: stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam; su circa 30. 000 lavoratori solo 2. 000 sono italiani.
BIALETTI: fabbrica in Cina; rimane il marchio dell’ “omino”, ma i lavoratori di Omegna perdono il lavoro.
OMSA: stabilimento in Serbia; cassa integrazione per 320 lavoratrici italiane.
ROSSIGNOL: stabilimento in Romania, dove insiste la gran parte della produzione; 108 esuberi a Montebelluna.
DUCATI ENERGIA: stabilimenti in India e Croazia.
BENETTON: stabilimenti in Croazia.
CALZEDONIA: stabilimenti in Bulgaria.
STEFANEL: stabilimenti in Croazia.
TELECOM ITALIA: call center in Albania, Tunisia, Romania, Turchia, per un totale di circa 600 lavoratori, mentre in Italia sono stati dichiarati negli ultimi tre anni oltre 9. 000 esuberi di personale.
WIND: call center in Romania e Albania tramite aziende in outsourcing, per un totale di circa 300 lavoratori. H 3 G: call center in Albania, Romania e Tunisia tramite aziende in outsourcing, per un totale di circa 400 lavoratori impiegati.
VODAFONE: call center in Romania tramite aziende di outsourcing, per un totale di circa 300 lavoratori impiegati.
SKY ITALIA: call center in Albania tramite aziende di outsourcing, per un totale di circa 250 lavoratori impiegati. Nell’ultimo anno sono stati circa 5. 000 i posti di lavoro perduti solamente nei call center che operano nel settore delle telecomunicazioni, tra licenziamenti e cassa integrazione.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2012
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http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/02/14/news/startup_italia-29843748/
Startup, l’Italia del futuro il business dei giovani.it
Le nuove imprese del web oggi sono il vero motore dell’occupazione. Lanciate da giovani e giovanissimi fatturano milioni e il mondo ce le invidia
di RICCARDO LUNA
OLTRE il posto fisso, forse non c’è il baratro. C’è un esercito di startup che si è finalmente messo in moto. Alzate lo sguardo. In Cile qualche giorno fa una startup italiana ha vinto la gara mondiale per i migliori progetti di innovazione e business. Doochoopropone un sistema per fare i soldi con i sondaggi in rete, ha già conquistato clienti come Ikea e Toyota, ed è guidata da un giovane che quando parla sembra sempre che stia per ribaltare il mondo: Paolo Privitera, veneziano, 35 anni, da dieci negli Stati Uniti (“me ne sono andato perché volevo correre”). […] l’8 dicembre a Parigi un’altra startup italiana ha vinto LeWeb, il più importante evento europeo dedicato all’economia digitale. […] Antonio Tomarchio, 29 anni, partito da Giarre, provincia di Catania, sapeva di dover battere anche lo spread della credibilità: è salito sul palco ed ha sbaragliato la concorrenza parlando di Beintoo (una piattaforma per applicazioni legate al gioco che ha tre milioni di utenti al giorno, di cui un milione solo in Cina). Ancora un passo indietro: a ottobre aveva fatto scalpore il fatto che Mashape, l’impresa di tre ventenni che avevano polemicamente lasciato l’Italia, era stata finanziata con circa un milione e mezzo di dollari dal numero uno di Google e dal fondatore di Amazon, ovvero la Champions League della Silicon Valley. Ma il tumulto non riguarda solo gli startupper lontani. Se restiamo ai casi di successo, quello forse più eclatante in questi giorni èAppsBuilder, piattaforma per farsi da soli applicazioni per telefonino, creata da un ingegnere del Politecnico di Torino di 25 anni, Daniele Pelleri: in undici mesi ha già sfornato 20 mila apps che sono state scaricate oltre un milione di volte. Questo elenco potrebbe non finire mai. E vuol dire in fondo una cosa sola: avanza una generazione di startupper. Sono di solito molto giovani, in prevalenza uomini ma ci sono tanti casi di donne (RisparmioSuper di Barbara Labate è il più noto). E poi: sanno usare benissimo la Rete; parlano alla perfezione almeno l’inglese; viaggiano in economy anche quando hanno successo perché i soldi non si sprecano; spesso all’inizio non hanno un vero ufficio e sanno raccontare il loro progetto in tre minuti esatti, non una misura qualsiasi, ma il tempo di una corsa in ascensore con un potenziale investitore (di qui la formula americanissima degli “elevator pitch” per le ormai tantissime competizioni a caccia di capitali).
Ma, soprattutto, gli startupper, non sanno cos’è il posto fisso. “Il nostro obiettivo nella vita non è trovarci un lavoro, ma creare lavoro”, ha scolpito nel web Max Ciociola, 34 anni, fondatore di musiXmatch e “startup activist”. L’occasione fu la sua “lettera di uno startupper a Berlusconi” e la frase in realtà non è originale: è una citazione della risposta che il rettore di Harvard dà ai gemelli Winklevoss nel film “The Social Network”. Ecco, Mark Zuckerberg per molti è un modello: “Ha successo – secondo Ciociola – perché sa rendere felici un miliardo di utenti”. […] Oggi le imprese rischiose, innovative ma con dentro il seme del futuro, non sono più l’eccezione di moda: sono la maggioranza. Secondo le stime della Camera di Commercio di Monza e Brianza, nei primi tre mesi del 2012 per la prima volta ci sarà uno storico sorpasso: i ventenni che apriranno una impresa (19 mila) saranno di più di quelli che troveranno un posto di lavoro a tempo indeterminato (18 mila). Inoltre i primi assumeranno seimila persone. L’esempio più eclatante in casa nostra è quello di Groupon, il colosso dei coupon scontati lanciato nel novembre 2008 a Chigago da Andrew Mason. Alla fine del 2010 Giulio Limongelli, 30 anni e un curriculum lungo un metro, ha aperto la sede italiana a Milano: da allora ha assunto – a tempo determinato – 450 persone. Di media una al giorno. Quanti altri lo hanno fatto in Italia? Nell’attuale sistema economico sono le startup l’unico motore di nuova occupazione: fu questa conclusione di un report della fondazione Kaufmann a convincere il presidente Obama a lanciare – esattamente un anno fa – il progetto Startup America, ovvero una rete di incentivi, facilitazioni e collegamenti per far ripartire l’economia americana con una formula che andava “oltre il posto fisso”. In Italia un progetto simile non c’è ancora ma alcuni tasselli stanno andando al posto giusto. Il primo è stato la possibilità per gli under 35 di costituire società semplificate con un euro di capitale e senza notaio. Sembra poco, ma è una svolta i cui effetti si vedranno presto [vedi articolo “Decreto liberalizzazioni: le novità per i giovani“]. In questi giorni tantissimi ragazzi stanno aspettando che questa previsione del decreto CresciItalia diventi operativa per trasformare il loro progetto in un business. Nasceranno migliaia di startup? “Possibile. Ma per farle crescere servirà il venture capital“, risponde Gianluca Dettori, ex startupper di successo degli anni Novanta, felicemente passato nel ruolo di talent scout dell’innovazione. “In fatto di venture capital siamo l’ultimo paese d’Europa, per ogni dollaro investito in Italia, la Svizzera ne investe 69, l’Olanda 62 e persino Portogallo e Grecia fanno meglio di noi“. Come rimediare? Un anno fa, era il 2 febbraio, alla Camera dei deputati il premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps venne a sostenere la causa di una “Banca dell’innovazione“. […] “Il Fondo Italiano ha deciso di destinare 50 milioni di euro al finanziamento dei venture capital. Sono tanti soldi per il nostro mercato”. Se sapremo approfittarne, può essere un anno memorabile. Startup, Italia!
14 febbraio 2012
http://massimochiriatti.nova100.ilsole24ore.com/2012/05/erode-e-le-startup.html
Chi è l’Erode delle startup italiane?
di Massimo Chiriatti – 27 maggio 2012
Lo startupicidio è un fenomeno che colpisce e uccide le startup in tenera età. Gli esperti come Gianluca Dettori dibattono sulla natura di questa epidemia: è una malattia autoimmune dell’infanzia oppure c’è un Erode che commette gli omicidi?
Quando la realtà (assenza di startup) mostra un comportamento che differisce dal modello di previsione (ce ne dovrebbero essere tante), si dà luogo a due interpretazioni metodologiche:
– tra chi crede che la causa sia interna (i giovani incapaci, poco propensi al rischio, etc.)
– e chi ritiene che la causa sia esterna (ambiente, leggi, infrastrutture).
Come in tutte le realtà dove sono coinvolti il gene e l’ambiente, è molto difficile diagnosticare chi ha più influenza sull’altro […]
Si concepiscono nuove imprese con grande passione e coraggio, subito dopo la nascita però emergono l’incapacità a sostenersi e a crescere. […] Certo nascere in un luogo adatto è già un bel passo avanti. La Silicon Valley è il luogo più citato, ma ci si dimentica di approfondire le ragione del suo successo: le ottime università, un’apertura al business che tollera anche il fallimento, le infrastrutture, ma soprattutto l’immigrazione di talenti. […]
Invece di fare si preferisce discutere sull’eterno dilemma dell’uovo e della gallina: alcuni affermano che non è colpa dell’incapacità dei giovani o nella mancanza di fiducia nel futuro, ma che l’ecosistema è inospitale per far nascere una startup; altri ribattono che se facciamo il paragone con i distretti italiani, che hanno avuto un discreto successo, vedremo che più che il luogo, le infrastrutture o le leggi sono le persone a essere determinanti.
L’unica cura risiede proprio nel cervello delle persone e nel numero di coloro che si prendono cura delle startup. […] Da Adam Smith in poi abbiamo capito che le regole dell’economia non cambiano: la ricchezza delle nazioni è sempre data da quante persone (sul totale) sono impiegate nel lavoro produttivo. Con la perseveranza nella ricerca della cura, creeremo un centro d’eccellenza in Italia che connetta idee, eventi, persone.
La startup è essenzialmente velocità. Lì dove c’è chi parla e non fa, chi aspetta qualcosa o qualcuno, agisce l’Erode che è dentro di noi. L’unica cifra che misurerà il successo della cura sarà il numero delle dimissioni, in gergo, le exit.
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http://www.economiaweb.it/in-italia-le-imprese-pagano-piu-tasse/
Imprese italiane tassate al 58%
di Sara Ferrari – 21-01-2012
Studio Confindustria-Deloitte: l’onere fiscale per le aziende è molto superiore a quello di Germania, Regno Unito e Spagna.
Le aziende italiane pagano un conto per le tasse molto più salato rispetto agli altri grandi Paesi europei. Secondo uno studio di Confindustria e Deloitte, l’imposizione fiscale complessiva in rapporto al reddito imponibile, il cosiddetto “effective tax rate”, è infatti al 58%, «decisamente superiore» rispetto alla Germania (43%), al Regno Unito (40%) e alla Spagna (29%).
SOLO IN FRANCIA IL CARICO È MAGGIORE. «Di poco diversa la situazione della Francia, dove il carico fiscale complessivo (60%) risulta lievemente superiore a quello italiano», ma solo per l’indeducibilità del compenso corrisposto ad amministratori esterni all’impresa.
L’imprenditoria italiana paga dunque un differenziale, in termini di tasse, pesante. Questo nuovo studio conferma tra l’altro quanto più volte evidenziato anche dagli osservatori internazionali sul fisco, come l’Ocse.
Nel dossier sono stati presi in considerazione quattro Paesi dell’Unione europea – Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna – ed è stato messo a confronto l’onere fiscale gravante su una società per azioni residente in Italia, con l’onere fiscale che la stessa società avrebbe subito applicando le regole fiscali di ciascuno dei Paesi considerati.
L’ONERE FISCALE COMPRENDE VARIE IMPOSTE. L’onere fiscale comprende, oltre alle imposte sul reddito, anche le altre principali forme di imposizione che nei Paesi in esame pesano sulle società: ad esempio, le imposte locali sugli affari, le imposte sugli immobili, le imposte di solidarietà sociale ed altre specifiche imposte locali. Inoltre, è considerata la tassazione del reddito in capo al socio, dopo l’assolvimento delle imposte dovute sull’utile prodotto e distribuito.
La stessa società – nel caso di studio una società per azioni con un fatturato di circa 27,5 milioni di euro che svolge attività di ricerca nel campo dell’automazione dei processi industriali, con circa 180 dipendenti, ed un export pari al 65% della produzione – se in Italia è chiamata a versare al Fisco 523.878 euro, in Spagna avrebbe un’imposizione di neanche la metà: 261.854 euro. Pagherebbe meno anche in Germania (382.492) e in Gran Bretagna (355.643 euro). Conto più alto, ma di meno di 10.000 euro con le regole fiscali della Francia.
NULLA È CAMBIATO DAL 1996. Tutto questo è rimasto più o meno invariato negli anni: uno studio analogo a questo era stato effettuato, sempre da Confindustria e Deloitte, nel 1996. «Anche allora si rilevava che l’imposizione complessiva era significativamente più elevata in Italia che negli altri Paesi considerati (Italia 58%, rispetto a Spagna 29%, Gran Bretagna 40%, Germania 43%, Francia 60%)», si sottolinea nel dossier.
http://www.finanzautile.org/tasse-le-imprese-italiane-sono-le-piu-tartassate-deuropa.htm
 

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Tasse: le imprese italiane sono le più tartassate d’Europa
L’ultima analisi realizzata dall’ufficio studi della Cgia su dati World Bank/IFC, ha analizzato i tempi e i costi medi necessari per espletare gli adempimenti fiscali a carico delle piccole e medie imprese presenti nei principali Paesi dell`Ue.
I risultati sono‘incredibili’: il tempo necessario per espletare i pagamenti fiscali nel nostro Paese si aggira sulle 285 ore l`anno. In Germania, invece, sono necessarie 215 ore, in Spagna 197 e in Danimarca 135. Chiude questa particolare graduatoria l`Irlanda con 76 ore.
Non parliamo poi del carico fiscale che grava sulle spalle dei nostri piccoli imprenditori che non ha eguali in Europa. Se da noi il peso delle tasse sugli utili dell`azienda è pari al 68,6%, in Francia è al 65,8%, in Spagna al 56,5% e in Svezia al 54,6%. Chiude la classifica sempre l`Irlanda con un carico fiscale pari al 26,5%.
Solo tra il numero di pagamenti fiscali lasciamo la prima posizione ad altri – si legge ancora nel comunicato – Infatti, la Germania guida questa classifica con 16 scadenze, ma subito dopo ci piazziamo noi con 15. Al terzo posto, tutti con 9 pagamenti, troviamo i Paesi Bassi, la Danimarca e l’Irlanda”.
21 / 02 / 2011
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Per approfondire: “La fiscalità italiana che schiaccia le imprese“
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Libro “Me ne vado a est – Imprenditori e cittadini italiani nell’Europa ex comunista” – di Matteo Ferrazzi e Matteo Tacconi
“Me ne vado a Est è un volume unico nel suo genere. In una qualunque libreria si trovano libri sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sulla Russia. Mai, però, un testo come questo, che sapesse dare una visione complessiva sull’Europa dell’Est e che avesse il coraggio e la capacità di raccontare le storie di coloro che hanno varcato l’ex Cortina di ferro”. (Federico Ghizzoni, a.d. UniCredit)
Migliaia di imprenditori e cittadini italiani hanno lasciato il Belpaese per andare a vivere e a produrre a Est, nei Paesi dell’Europa orientale e balcanica un tempo oltrecortina. Me ne vado a Est racconta le storie di chi ce l’ha fatta e di chi non ce l’ha fatta – imprenditori e manager, calciatori e veline. E, soprattutto, spiega le economie e i sistemi politici di questi Paesi con passione e semplicità, mettendo in evidenza luci e ombre di un processo che sta cambiando l’industria italiana e tutte le nostre vite.
Me ne vado a est ci spiega che l’80 per cento delle imprese italiane attive nell’Europa dell’Est lavora principalmente in quattro Paesi: Romania, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Le aziende italiane con più di 2,5 milioni di euro di fatturato annuo attive in questi quattro Paesi sono 4.000 e rappresentano un quinto della presenza imprenditoriale italiana nel mondo. Sommando le aziende italiane attive in Serbia, Bosnia, Macedonia e altri Paesi, le cifre sono ancora più sorprendenti. Ancora più straordinario è il fatto che il numero di imprese italiane presenti nell’Europa dell’Est è quattro volte superiore a quello delle aziende, sempre italiane, attive in Cina. Se tenessimo conto anche delle piccole e piccolissime imprese, la proporzione sarebbe ancora più accentuata. Idem per l’import-export: importiamo dall’Europa orientale tre volte e mezzo quello che importiamo dalla Cina; esportiamo a Est un flusso di merci otto volte superiore a quello diretto verso il Dragone.
Me ne vado a Est prova a colmare un grave vuoto di conoscenza e a tracciare un’analisi dei Paesi di destinazione e a spiegare le ragioni, le delusioni e le difficoltà che spingono a varcare la frontiera.
“Il testo di Ferrazzi e Tacconi non è un libro solo per economisti. Mette insieme elementi di storia, di cultura e di politica, aneddoti, vicende sociali. È una piccola enciclopedia, adatta ai curiosi come ai viaggiatori, che aiuterà a riscoprire l’Est, una regione che è ormai parte integrante del nostro panorama produttivo e culturale”.(Angelo Tantazzi)
Con il patrocinio di Confindustria Balcani e di East-rivista europea di geopolitica.
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http://www.linkiesta.it/piacenza-imprenditori-zucchi
«Per aprire un’impresa in Italia servono 40 moduli. Non ne possiamo più»
Dario Ronzoni – 23 giugno 2012
Quarantaquattro per il settore alimentare. Un gruppo di imprenditori è stufo e ha deciso di lasciare l’Italia. Si ritrovano nella profonda provincia di Piacenza: troppe tasse, troppa burocrazia. Il capofila è Andrea Zucchi, imprenditore della zona diventato famoso a Piazza Pulita, che vuole creare una rete di relazioni con l’estero.
«Il vero problema, sa qual è? La burocrazia, che soffoca le imprese», dice un imprenditore. Ha fondato una società di consulenza per la sicurezza informatica, e «lo vedo tutti i giorni con i miei clienti, società e studi per cui lavoro: un disastro. Non si può far nulla senza avere un’autorizzazione. E per averla si deve aspettare giorni, se non settimane. Ecco, all’estero non è così, è più semplice». È vero: in Italia, per cominciare un’attività imprenditoriale servono almeno 40 adempimenti. E, se si è nel settore alimentare, 44. Un labirinto burocratico inefficiente e logorante, che sembra togliere ogni fiducia. E quindi che si fa? «Si va all’estero».
Questa, almeno, è la risposta di Andrea Zucchi, 51 anni, amministratore unico della Key’O srl, imprenditore della provincia di Piacenza (e di Milano). Un’idea sempre più condivisa e apprezzata. Lui, per farlo meglio, ha convocato per sabato 23 giugno, un convegno a Carpaneto, nel piacentino. «Si chiama Passaporto per la vita», spiega a Linkiesta, «perché intendiamo lasciare il paese per poter continuare a vivere». Partire non è più morire, allora. Il senso profondo del convegno è questo: si possono decidere strategie, trovare idee, condividere esperienze. E soprattutto, organizzare l’esodo delle imprese, un’arca di Noè che trasporti tutti lontano, «Dove possiamo lavorare». Ma dev’essere fatta bene. «Vorrei che si formasse una comunità, e si lavorasse insieme per questo». Un progetto che, nella sua semplicità, è gigantesco. L’appuntamento è nel palazzo del Comune, in sala Bot, decorata da pitture del ventennio.
«Una cosa informale», si era raccomandato. Alcuni gli hanno dato retta, ma lui ha battuto tutti, con il buon esempio: pantaloncini, infradito e maglietta gialla, e si staglia in una folla di camicie bianche. «Mi hanno definito un anarchico libertario», spiega. «Ebbene, lo sono». Di lui quasi tutti ricordano il gesto teatrale fatto a Piazza Pulita: la consegna delle chiavi della sua azienda in crisi al sottosegretario al Tesoro Gianfranco Polillo, in segno di sfida, denuncia e di addio. «più che un imprenditore, io sono un trapezista, perché faccio i salti mortali. Eppure, ho un’imposizione che raggiunge il 70%. Basta, fate voi, io con educazione, me ne vado», aveva detto. Il suo appello ha colpito nel segno, in molti gli hanno scritto, e da lì tutto è andato avanti. Ospite di Oscar Giannino a Radio24, ha lanciato l’idea dell’incontro, le persone hanno risposto, ed è nato il Carpaneto Day. O meglio, l’Ignition Day: «Sa che significa? Quando si lancia un missile, il conto alla rovescia finisce con l’ordine “ignition”: 3, 2, 1, 0, ignition», spiega. «Ecco, il missile è pronto a partire, anzi, sta per essere lanciato». Fuor di metafora, il missile sono gli imprenditori che «vogliono vivere», cioè, andarsene.
«Perché qui non si può più far niente», spiega un imprenditore del tessile, della provincia di Lecco. Ad accompagnarlo ci sono i suoi figli. «Ormai siamo rimasti in pochi, il settore è finito», spiega la ragazza. «Allora cerchiamo idee per uscire da qui. In Svizzera si fa un buon lavoro, si paga poco e le cose funzionano. Ma non è semplice». Meditano di lasciare il paese, seguendo l’esempio di alcuni “colleghi”. «Ci sono designer del tessuto da generazioni. Un lavoro delicato. Ecco, hanno lasciato l’azienda, e si sono messi in proprio». Ma non qui: «in Romania».
L’esercito in fuga è corposo. «Anche noi ce ne vogliamo andare», racconta a Linkiesta un’imprenditrice friulana. «Io e mio marito ci occupiamo di pitture e vernici, e cartongesso». Un mestiere che fanno da più di trent’anni, con tre dipendenti e sempre meno ricavi. «La crisi ha fatto terra bruciata», racconta. Hanno dovuto cominciare a tagliare, su costi, sede e poi fino a ridurre anche il volume della produzione. Adesso«lasciare il paese è l’unica scelta possibile», spiega. Ma dove? «Non lontano. O in Slovenia, in Austria, adesso decideremo», racconta. Nella folla, c’è anche un nobile, con tanto di castello «che però ho pensato di vendere più volte», racconta. «Si tratta di un bene ereditato da generazioni. Grazie a quello, io mi occupo di ristrutturazioni edili, e di agricoltura, tutte attività nate intorno alla mia proprietà e che poi si sono sviluppate». Sorridente, snocciola storie ed episodi di pubblica inefficienza. «Il problema dei voucher, ad esempio», ride. «Me li hanno fatti comprare, ma nessuno sa come si usano. Tanto che mi hanno dovuto pregare di annullarli, altrimenti non ci si riusciva a pagare». Ma anche storie di permessi negati, dati, ritirati, attesi per mesi. «Un logoramento», ride. «Ma per non piangere», sia chiaro.
Imprenditori della zona e da fuori, commercialisti, artigiani, partite Iva, professionisti. Tutti incuriositi, attratti dall’idea di fare affari fuori. L’incontro ha un aspetto seminariale: si spiegano le opportunità di lavoro in Cile e in Paraguay, ad esempio, Per chi vuole restare in Europa, c’è la Lettonia. La racconta Lucio, che ha fatto fortuna a Riga come amministrando fondi comunitari per le imprese. «Qui le società si possono costituire in tre giorni, a prezzi bassissimi». I sindacati, dichiara, «se vogliono entrare nell’impresa, devono chiedere il permesso». Applausi e grida. «Lì è diverso: la tua impresa è considerata come una tua casa, c’è molto più rispetto», spiega. Ora, però, è tornato in Italia, ha aperto una società a Carpi e fa consulenza.
Intanto si stringono relazioni, si sviluppano interessi. «A me interessa uscire da qui, per ragioni commerciali», racconta a Linkiesta Anna. «Io sono addetta al commerciale di un’azienda di artigiani, lavoratori dell’oro». Ha 57 anni, «per cui non più tanto giovane. Mi sono ritrovata in mezzo alla strada, e senza pensione. Ma mi sono data da fare, e ho ricominciato». Prima era alla Rinascente, e si occupava dei rapporti con l’estero. «Sono stata in Cina per lavoro trent’anni fa. Così in Corea, Bangladesh, India, Malesia. Ho visto quel mondo cambiare del tutto», mentre «l’Italia restava immobile». Per lei, però, è cominciata una nuova vita: «Voglio espandermi, per questo sono qui. Per creare relazioni e aprire ai mercati stranieri». Gli italiani, ormai, «non sono più quelli di un tempo. E io non credo nella loro voglia di fare».
Massacrati dal fisco, logorati dalle lungaggini di uffici e regole incomprensibili, azzoppati dalla crisi. Ma soprattutto, il problema è la pianificazione. «In Italia non si può fare», lo spiega un imprenditore che viene dal Paraguay. Ha lavorato lì da quando aveva quattordici anni. Poi, per nostalgia, è tornato in Europa. «Ho preso una casa in Piemonte, mi costava poco perché non c’era più l’Ici. Era un buon investimento, e poi ci tenevo». Le cose, però, sono cambiate «e allora non mi conviene più. Ma il problema, alla fine, è questo: non si può prevedere niente, non si possono fare piani nel lungo periodo. Non lo fanno gli italiani, figurati le aziende straniere». Un problema politico, senz’altro, e di mentalità. «Un problema che non si può risolvere: se tu anneghi e il paese annega, si muore in due. Se te ne vai, almeno tu sopravvivi». Tutti d’accordo. Tranne uno.
Una signora anziana, carpanetese doc, irrompe nell’assemblea: «Ma voi volete bene all’Italia o no?», grida, e spiazza l’uditorio. «C’è bisogno di voi, qui. Non potete lasciare il vostro paese. C’è bisogno di coraggio e intraprendenza. Solo voi potete farcela. Restate, e vincete qui». Un’altra retorica, un altro mondo. «Ma noi, da fuori, prendiamo prodotti italiani», spiega l’imprenditore del Paraguay. «Sì, ma portate fuori il lavoro», lamenta la signora. Poi, in disparte, una ragazza le risponde «Il problema è che il lavoro, qui, non ce lo lasciano fare». E allora, esodo o meno, la questione è qui. Forse ne nascerà un Movimento, per far pressione, o solo per aiutarsi. Capofila Zucchi, poi gli altri. Forse ne verrà anche altro. Ma resta importante, è molto seria.
http://archiviostorico.corriere.it/...ese_emigrano_Cina_meglio_co_5_050302009.shtml
IL 10 PER CENTO DELLE SOCIETÀ HA APERTO UN’ATTIVITÀ OLTRE LA FRONTIERA
Le piccole imprese emigrano In Cina? No, meglio la Svizzera
Agevolazioni e assistenza: le aziende lasciano Varese. Il presidente dell’ associazione: «Da loro l’ Iva è sotto il 5 per cento e l’ Irap non esiste»
VARESE – Dici «delocalizzazione» e subito pensi alle fabbriche trasferite in Cina o in Romania, ai salari che costano un decimo di quelli italiani, alle leggi non severe in materia di salute e ambiente. Sbagliato: c’ è una fuga di aziende che segue altre piste, che approda addirittura nella Svizzera dove un operaio guadagna molto di più del suo collega italiano, dove con il rispetto dell’ ambiente non si scherza e dove l’ evasione fiscale è inesistente. «Ma volete mettere i vantaggi che si ricevono sotto il profilo di servizi dalla pubblica amministrazione e l’efficienza con cui si può lavorare?»: Franco Colombo, da pochi mesi presidente di Api, l’associazione delle piccole e medie imprese di Varese, ha sotto gli occhi il quadro del fenomeno. «Circa il 10% dei nostri associati ha aperto unità produttive in Svizzera o ha realizzato joint venture con imprese al di là del confine. Tutto ciò senza chiudere gli stabilimenti italiani». I piccoli industriali varesini l’ altro giorno hanno incontrato il ministro Roberto Maroni, esternandogli tutte le loro preoccupazioni. «Non vogliamo morire cinesi – ha detto Colombo – ma vorremmo prendere ad esempio quanto accade a pochi chilometri da noi, dove lo Stato non si comporta da matrigna nei confronti degli imprenditori». Ed ecco venire a galla una realtà che si è fatta strada negli ultimi anni, ma che è conosciuta solo al mondo delle piccole imprese: se molte di loro, specie nella fascia di confine, vogliono ampliare i capannoni o rinforzare l’ attività si rivolgono ai «cugini» ticinesi, ma anche di altri cantoni svizzeri. Come ha preso piede il fenomeno? «Alcuni anni fa – racconta Arnoldo Coduri, responsabile del dipartimento economia del Canton Ticino – abbiamo lanciato un programma chiamato Copernico: a chi apriva attività nella nostra zona offrivamo agevolazioni finanziarie, fiscali ma anche assistenza sotto il profilo delle pratiche burocratiche; i nostri funzionari sono tenuti a comportarsi da consulenti per chi arriva qui». In poco tempo 53 società lombarde hanno aperto i battenti a Lugano, Bellinzona e dintorni. Ora il fenomeno investe altre zone elvetiche. «Dover pagare salari più alti – commenta ancora Colombo – è compensato dal fatto che la tassazione è più bassa: l’ Iva è sotto il 5% contro il 20% italiano, l’ Irap non esiste. Poi si trova con facilità quella manodopera specializzata che a Varese come in altre zone lombarde è spesso irreperibile; in più gli oneri sociali solo per il 25% della busta paga contro il 50. E le infrastrutture, a partire dai trasporti, sono di primissima qualità. A Maroni lo abbiamo fatto notare: perché non è possibile anche da noi contrastare la concorrenza sempre più agguerrita migliorando come gli svizzeri i fattori di competizione?». «Già oggi – osserva Sandro Lombardi, dirigente dell’ Aiti, l’ associazione degli imprenditori di Lugano – il 20% delle imprese attive sul nostro territorio ha una matrice italiana così come il 50% della manodopera industriale. Questo fa sì che nel nostro cantone la ricchezza prodotta dalle industrie sia addirittura superiore a quella realizzata dalle banche e dal terziario. E i tre quarti dei prodotti vengono poi esportati, percentuale che solo dieci anni fa era molto più bassa. Perché è successo tutto questo? Per una ragione fondamentale: qui l’ imprenditore non ha conflitti con le istituzioni. Le tasse si pagano fino all’ ultimo centesimo, le leggi si rispettano, ma il buon rapporto con la pubblica amministrazione fa vivere tutti più sereni, l’ imprenditore può dedicare le sue energie migliori al core business dell’azienda, non è distolto da altri pensieri».
[…] I VANTAGGI
• Imposte meno onerose: la pressione fiscale in Svizzera è mediamente più bassa che in Italia, ma le nuove imprese possono ricevere e usufruire di agevolazioni particolari che variano da zona a zona: in Canton Ticino le tasse sulle società dal 1994 a oggi sono diminuite dal 13% al 9% del fatturato;
• Burocrazia efficiente: un funzionario pubblico segue passo passo la nascita e l’ insediamento delle nuove imprese, agevolando – attraverso uno sportello unico – il disbrigo di tutte le pratiche necessarie. A volte bastano pochi giorni per ottenere documenti e permessi per i quali in Italia sono necessari mesi e mesi di attesa;
• Disponibilità di manodopera: nessuna difficoltà a reperire operai specializzati, a differenza di quanto accade in Lombardia, dove, secondo i dati dell’ Unioncamere, il 45% delle richieste rimane senza risposta. I salari più alti sono compensati da oneri sociali più bassi. Da registrare che nel Canton Ticino il 50% degli operai sono italiani.
PROGETTO COPERNICO:
«Copernico» è il nome dato al programma di marketing varato in Canton Ticino per attirare imprese straniere a Lugano e dintorni. «Elevata qualità della vita, apertura culturale, certezza del diritto, stabilità del sistema, infrastrutture tra le più moderne al mondo»: questi, a leggere il sito internet di Copernico, i vantaggi offerti a chi decide di sbarcare in Svizzera. I servizi vanno invece dalla stesura di un business plan ad agevolazioni fiscali fino a consulenze per esplorare i mercati esteri
Del Frate Claudio
(2 marzo 2005) – Corriere della Sera
PROGETTO COPERNICO:
http://www4.ti.ch/dfe/de/copernico/home/

Sostegno pre-insediamento
Consulenza sulle condizioni quadro e i punti di forza del territorio in relazione al progetto specifico.
Accompagnamento durante l’insediamento nei contatti con la pubblica amministrazione, il mondo economico e le associazioni di categoria.
Incentivi pubblici per investimenti innovativi nel settore industriale e del terziario avanzato e sull’assunzione del personale.
Sostegno post-insediamento
Le società insediate nel Cantone possono inoltre beneficiare di:
Contributi a fondo perso fino al 25% su investimenti innovativi.
Risarcimento degli oneri sociali a carico dell’azienda per due anni per ogni nuovo posto di lavoro creato per personale residente.
Contributi per progetti di ricerca e sviluppo tramite centri di ricerca accreditati e l’appoggio della Commissione per la Tecnologia e l’Innovazione (CTI).
Contributi alla partecipazione a fiere specialistiche.
Contributi a progetti di consulenza nell’ambito dell’internazionalizzazione.
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18 Ottobre 2012
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Aggiornamento del 4 aprile 2013:
http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/466409/
25/08/2012
Bollette salate per le aziende italiane: dieci miliardi in più della media Ue
Lombardia e Milano sono in vetta alla classifica delle aree italiane con la bolletta elettrica più costosa a carico delle aziende. Emerge da un’analisi della Confartigianato che misura la differenza Italia-Ue per i costi della luce. Lo scorso anno, gli imprenditori italiani hanno pagato 10.077 milioni di euro in più rispetto alla media europea.
Il conto più salato tocca alle aziende del Nord, che complessivamente nel 2011 hanno sborsato per la luce 5.848 milioni di euro in più rispetto ai concorrenti Ue. […] in media, ogni azienda italiana paga l’energia elettrica 2.259 euro all’anno in più rispetto agli imprenditori europei […].
«Il costo dell’energia elettrica per uso industriale – sottolinea il presidente di Confartigianato, Giorgio Guerrini – è una delle tante zavorre che frenano la corsa delle imprese italiane, uno dei tanti oneri che riducono la nostra competitività rispetto ai competitor europei. Anche su questo fronte chiediamo al Governo di agire in fretta per cominciare ad avvicinarci agli standard degli altri Paesi dell’Ue».
http://www.soldielavoro.it/infografiche/fuga-all-estero-per-27mila-imprese-italiane
Fuga all’estero per 27mila imprese italiane
Sono oltre 27mila le imprese italiane che hanno deciso di trasferire all’estero parte dell’attività produttiva dal 2000: i dati della Cgia di Mestre
di Redazione Soldionline – 2 apr 2013
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Aggiornamento del 16 dicembre 2014:
http://www.lastampa.it/2014/12/15/e...licazioni-9rz0OsmUCnxGuYbYXKzWbP/premium.html
Fisco, la fabbrica delle complicazioni
Ogni settimana una norma che aumenta gli adempimenti.
La fabbrica delle regole e delle complicazioni non si ferma mai. Nonostante gli sforzi del governo, che finalmente iniziano a dare i primi frutti, soprattutto grazie all’operazione del 730 precompilato a domicilio, la pressione burocratica sulle imprese non accenna a scendere. È una vera tela di Penelope: dal 2008 ad oggi, per una norma che semplifica ne sono state emanate 4,3 che complicano la gestione degli adempimenti tributari.
PAOLO BARONI – 15/12/2014
Tags: delocalizzazione, disoccupazione giovanile, imprese, pressione fiscale, startup
Posted by Lady Donkey Economia Subscribe to RSS feed